venerdì 29 agosto 2014

Test ISO Olympus Stylus 1

Ha senso fare un test della tenuta alle varie sensibilità per una compatta seppur evoluta? Ovviamente no ma in tanti mi hanno chiesto di farne uno al volo almeno per farsi una idea di come si comporta la macchina e così ho fatto giusto una serie di scatti al volo.
Le foto sono fatte su treppiede, illuminazione naturale e scarsa, giornata nuvolosa e luce che entra dalla finestra, programma A con diaframma a 2.8, colore naturale, controllo del rumore impostato su standard, jpg così come lo butta fuori mamma Olympus con relativi crop. Ho impostato così la macchina perchè rappresenta il 99% dell'utilizzo che ne può fare l'utente medio, poi se si ha voglia e tempo si scatta ovviamente in RAW e si recupera ancora qualcosa in termini di pulizia.
Per i miei gusti (ormai mi sono abituato bene...) la trovo usabile fino a 800 iso in stampa, poi degradano i dettagli anche se le foto potrebbero essere accettabili per il web e i social network.

 ISO 100


ISO 200 



ISO 400 


ISO 800



ISO 1600



ISO 3200



ISO 6400




ISO 12800


Ho scelto di scattare a 2.8 perchè la macchina usa questa apertura quando c'è poca luce per garantire la massima luminosità al sensore. Per me la Olympus Stylus 1 si comporta in modo onesto, ha un sensore che sta sotto al pollice come grandezza e una escursione focale importante e si deve tenerne conto quando si da un giudizio complessivo. Sicuramente i fanatici della pulizia non saranno soddisfatti ma almeno per quel che mi riguarda la trovo impareggiabile nell'uso comune e non sono mai dovuto andare oltre i 400 iso di sensibilità.
A breve proporrò anche altri scatti con i filtri artistici e qualche guida al settaggio per tirare fuori il meglio da questa macchina che ha tanto da dire.


giovedì 28 agosto 2014

Olympus Stylus 1 recensione: parte 2

Tempo fa avevo fatto una prima rapida recensione della Stylus 1 e oggi a distanza di parecchio tempo rieccomi a parlarne assieme a qualche foto di esempio.
La macchina a mio avviso va molto bene, di giorno è un piacere averla dietro essendo molto leggera e per foto "turistiche" va più che bene.
Un fattore che in diversi mi hanno chiesto di raccontare è lo zoom, vera peculiarità di questa macchina che presenta un 28-300mm f2.8 costante, un vero lusso.
Iniziamo con le foto che parlano da sole, la prima è fatta a 300 mm, interno di un locale alle prime ore dell'alba:


con la seconda è uno scatto per evidenziare la capacità a 2.8 di separare i vari piani dell'inquadratura





ora uno scatto a 28mm



e la sua controparte a 300mm



 sempre 28mm


e 300mm
 

28mm




300mm


crop dello scatto a 300mm


per ultima un'interno di una chiesa



La macchina in questione è molto valida e prestante, non eguaglia le macchine micro4\3 come qualità ma si difende bene dalle dirette concorrenti. Certo, la Sony con la sua compatta di lusso con sensore da 1" va meglio ma con uno zoom infimo, la Ricoh GR è fenomenale con il suo apsc ma ha una lente fissa così come i vari foveon di Sigma.

La Stylus offre un buon pacchetto complessivo, onesto su tutti i fronti senza magari eccellere in nessuno ma neanche sfigurando.
Un appunto va fatto, per fare spazio al piccolo flash hanno tolto l'accessory port che a me risulta utile per l'uso dei faretti dedicati alle foto macro...


mercoledì 27 agosto 2014

Cultura fotografica : Kevin Carter, 1993

Raramente ad una foto viene dato un titolo, questa è una di quelle rare eccezioni ed il titolo era : l’avvoltoio e la bambina.

Forse già il nome ha fatto scattare qualche ricordo nelle persone, è una immagine famosa e molto dibattuta sia all’epoca in cui venne scattata che in seguito.

Il fotografo si chiamava Kevin Carter, un giovane trentenne che forse vide e fotografò più di quanto il suo cuore poteva sopportare. Era il 1993 e Carter si trovava in Africa per seguire gli scontri nel Sudan e le carestie che in quel periodo stavano letteralmente uccidendo di fame la popolazione già stremata dalla guerra civile. Carter conosceva i componenti del Bang Bang Club e con loro aveva condiviso diversi reportage ma lo scatto che gli valse il Pulitzer lo fece da solo quando, durante uno dei suoi viaggi all’interno del paese, si trovò davanti una bambina ridotta a carne ed ossa accovacciata a terra con alle spalle un avvoltoio che in silenzio attendeva il momento del pasto.

Carter dopo lo scatto allontanò l’avvoltoio ma rimase profondamente turbato dalla scena appena congelata, una scena che fece il giro del mondo, che scaldò molti cuori e fece versare molte lacrime di compassione ma che gli portò anche problemi e invidie da parte dei colleghi che lo accusavano di essere insensibile e alcune volte anche d’aver costruito ad arte la foto.

Un anno dopo Carter si suicidò con il monossido di carbonio lasciando una breve lettera in cui diceva di essere perseguitato dai ricordi di ciò che aveva visto.

 

Personalmente ritengo che la storia di Carter sia un esempio eloquente di come il lavoro del fotografo può intaccare profondamente l’anima. Andare a fare reportage vuole dire anche rimanere estranei agli avvenimenti, lasciare che seguano il loro corso cercando solo di coglierne l’essenza per riportarla al resto del mondo. Deve essere dura vedere persone, bambini che muoiono di fame, fotografarli e poi la sera andare a cena in hotel, se si chiude lo stomaco a me ora guardando questa foto non riesco a immaginare ciò che poteva provare lui ogni volta che chiudeva gli occhi.

Sicuramente il suo suicidio è stato il risultato finale di tanti fattori ma sono certo che i viaggi in Africa hanno contribuito non poco a far crollare una persona evidentemente troppo sensibile per quel tipo di lavoro.

 

Cultura fotografica : Greg Marinovich, 1990

La fotografia rappresenta un veicolo molto importante per documentare gli avvenimenti, è diretto, è immediato e colpisce corde che gli articoli di giornale difficilmente possono anche solo toccare e alle volte per farci sobbalzare deve essere anche dura e cruenta.

Purtroppo nel mondo ci sono conflitti che passano in secondo piano, di cui si sa poco niente e che non suscitano rabbia tanto quanto invece dovrebbero, un esempio di ciò è dato dai conflitti africani.

Nel 1990 si era in piena apartheid e i conflitti non riguardavano solo i bianchi e neri ma anche le stesse tribù africane che allora come oggi combattevano tra loro massacrandosi in modo atroce.

A quei tempi esisteva un gruppo di fotografi impegnato a documentare tali violenze che venne soprannominato Bang Bang Club e uno dei suoi appartenenti si chiamava Greg Marinovich.

La foto che valse a Greg il Pulitzer narra una storia di orrore a cui assistette presso una stazione ferroviaria.  In quell’occasione il fotografo vide un gruppo di persone di colore aggredire un uomo, ferirlo più e più volte con coltelli e lanci di pietre accusandolo di essere una spia di una tribù nemica ( senza sapere se fosse vero o meno ) e alla fine, quando il malcapitato era ancora vivo, lo cosparsero di benzina e gli diedero fuoco.

Greg scattò una lunga sequenza di foto per documentare quell’assassinio tanto barbaro quanto brutale e le mandò alle agenzie di stampa internazionali.

Come al solito in molte rifiutarono di pubblicarle a causa della durezza delle immagini e solo dopo il conferimento del premio Pulitzer si decisero a mandarle in stampa, come se il premio rappresentasse una sorta di lascia passare per gli animi sensibili, hai vinto quindi diventa arte prima ancora che fotografia.

Questo tipo di reportage non è per tutti, un fotografo ne esce distrutto nell’animo, stare dietro l’obiettivo non mette a riparo anima e coscienza e personalmente non credo che riuscirei a rimanere lucido in queste situazioni e a scattare foto.

Di sicuro il valore degli scatti è alto, foto così servono a far comprendere cosa effettivamente succede dall’altra parte del mondo visto che troppo spesso i media censurano o rendono meno forti le notizie per non ferire i sentimenti delle persone.

 

martedì 26 agosto 2014

Cultura fotografica : Nick Ut, 1972

Esistono foto che vanno oltre il premio Pulitzer e divengono icone di un tempo, portatrici di un messaggio che rimarrà impresso nelle menti di chi poserà gli occhi su quello scatto.
Il fotografo di cui intendo parlare si chiama Nick Ut e come tanti nomi di fotografi probabilmente nessuno o pochi lo assoceranno ad una immagine in particolare ma alla fine, quando la vedrete, vi stupirete di non aver collegato nome e foto.
Era il 1972, anno legato alle proteste contro la guerra nel Vietnam, anno caldo dal punto di vista giornalistico e fotografico per chi cercava di raccontare quel periodo drammatico fatto di lotte intestine e guerre esterne.
Un fotografo si trovava in Vietnam già da tempo per seguire gli avvenimenti, il suo nome era Nick Ut, uno dei tanti reporter di guerra ormai avezzi a vedere di tutto o almeno così pensava ma nulla lo aveva preparato a ciò che vide e fotografò quel giorno.
Il Vietnam è legato al napalm, una delle peggiori invenzioni dell’uomo dopo la bomba atomica, una sostanza che supera i 1000 gradi di temperatura quando si infiamma, una sostanza che non solo aderisce al corpo di chi colpisce ma che, grazie all’aggiunta di fosforo, arde ancora di più quando il malcapitato cerca salvezza con l’acqua.
Nick conosceva il napalm, era di casa in Vietnam e se ne faceva largo uso per cercare di stanare i vietcong ma una cosa era vedere l’esplosione da lontano e trovare poi cadaveri di militari carbonizzati e un’altra cosa era ritrovarsi testimone di un attacco finito male che colpiva civili inermi.
Fu così che, mentre si avvicinava al villaggio di Trang Bang appena devastato dal napalm, Nick assistette a una scena che mai avrebbe scordato. Dal fumo nero iniziarono ad apparire figure umane in fuga, con brandelli di pelle che si staccavano dalla carne, con ustioni su tutto il corpo, tra grida di dolore e frastuono della guerra.
Fu un attimo, il tempo di alzare la macchina fotografica e fare click, quasi a caso immagino vista la situazione, il dramma, la tensione.
Qualche scatto ai bambini in fuga, una bimba in particolare nel gruppo era nuda, si era tolta i vestiti nel tentativo di sfuggire al napalm e urlava di dolore.
Nick la prese in braccio e la trasportò al più vicino ospedale dove restò fino a quando la portarono in sala operatoria. La bambina si chiamava Kim Phuc e ce la fece e oggi vive in Canada, ha fondato una associazione che si occupa delle vittime della guerra ed ha mantenuto stretti i rapporti con il proprio salvatore.
Probabilmente Nick Ut non si rese conto della grandiosità del suo scatto e di ciò che ne derivò, un terremoto nelle coscienze sopite dei benpensanti americani, ai tempi della pellicola ( mi sento vecchio a dirlo ) il risultato si scopriva in camera oscura, non come oggi che tutti riguardano subito gli scatti selezionando quelli venuti meglio.
La foto la conoscete di sicuro, sarebbe un’offesa alla storia se così non fosse.


Una nota a margine va spesa per dire che nella maggior parte dei casi avrete visto una immagine ritagliata con la bambina al centro, scelta editoriale del tempo fatta per dare risalto alla drammaticità della scena e per togliere il soldato sulla destra che sembrava indifferente ai bambini.
Anche la decisione di pubblicare la foto non fu semplice, era la prima volta che si pubblicava un bambino nudo e gli editori discussero parecchio ma alla fine prevalse il buon senso e l’importanza documentaristica della foto per fortuna.
Come vedete le foto venivano ritoccate anche con la pellicola, argomento questo che ha sempre creato scandalo con il digitale ma che è sempre esistito.

sabato 23 agosto 2014

Cultura fotografica : Bill Beall, 1957

Voglio iniziare una nuova parte di questo mio blog in cui parlare di fotografie e cultura fotografica.
Come molti sapranno esiste un premio Pulitzer anche per le foto, immagini speciali che da sole raccontano molto e di queste foto, oltre che di altri grandi scatti e fotografi, intendo parlare.
Il primo scatto che vi propongo è di Bill Beall, un nome che a molti non dirà nulla ma che con una sua foto vinse il Pilitzer nel 1957 per la capacità di sintetizzare stati d'animo e coesistenze nell'America di quegli anni.
Il fotografo in questione lavorava per il Washington Daily News ed il 10 settembre 1957 decise di seguire una festa organizzata nella capitale americana dalla comunità cinese per l'inaugurazione di un nuovo edificio a Chinatown.
Il fotografo seguiva l'evento che si stava svolgendo in tranquillità seppur con una folla immensa, molti petardi e i tipici colori che animano le feste popolari cinesi.
Ad un tratto il fotografo ebbe l'intuito di osservare un bambino cinese molto piccolo che da solo si stava avvicinando pericolosamente alla strada affollata e nello stesso momento un poliziotto che seguiva l'avvenimento percepì un possibile problema per quello stesso bimbo.
Fu un attimo, Bill Beall ebbe la prontezza di tirare su la macchina fotografica, mettere a fuoco e congelare l'istante in cui il poliziotto si chinava per riprendere il bambino. La foto che ne scaturì fu splendida, il candore di un bambino davanti alla legge, lo sguardo severo del poliziotto e quello sorridente del bambino, due mondi tanto lontani quanto vicini nel momento del potenziale pericolo.
Lo scatto vinse numerosi concorsi oltre al Pulitzer e anche se non divenne una icona dei suoi tempi ha comunque qualcosa di magico racchiuso in se, in quel viso del bambino divertito e del tutore dell'ordine che davanti a lui si piega.




mercoledì 20 agosto 2014

Recensione borsa fotografica Tamrac pro 13

Nella mia esperienza da fotografo ho sperimentato un pò tutti i sistemi di trasporto per l'attrezzatura, dalle borse agli zaini passando per strani ibridi che si portano sulle spalle come zaini ma che poi si fanno scivolare di lato come borse...un orrore.
Personalmente dopo svariati tentativi di farmi piacere gli zaini sono tornato alle vecchie care borse, due per la precisione, la Tamrac pro 13 e la Tamrac pro 8, la prima per le uscite pesanti, per quando fotografo una cerimonia o simili e voglio con me tutto, la seconda per le uscite leggere.
In questo post parlerò della versione più grande, la pro 13, una borsa enorme che non va presa in considerazione per le uscite normali, pesa quasi 3 chili solo lei più tutto ciò che può trasportare.
Questa borsa risulta fondamentale in caso di viaggi o per grossi lavori in cui sa che si andrà in un posto fisso e ci si vuole portare dietro di tutto.
La qualità costruttiva è elevata, tante tasche, spazio per il pc portatile da 15" e sacca anti pioggia la rendono perfetta per i lunghi spostamenti.
Io ci tengo dentro il seguente materiale:
-Olympus EM1
-Zuiko 12-40
-Zuiko 50-200swd
-Zuiko 50 f2
-Zuiko 35 macro
-Zuiko 75 1.8
-Summilux 25 1.4
-Samyang 7.5
-EC14
-FL600R
-FL36R
-6 batterie
-carica batterie
-Battery Grip

Tutte le ottiche comprensive di paraluce.





Samyang 7.5mm + Olympus EM1

Una lente che nel mio corredo era sempre mancata ma che avevo spesso desiderato sperimentare era la fish eye, occhio di pesce, un grandangolo esagerato che copre 180° di visuale dando nel contempo una tipica visione a sfera peculiare di questa classe di lenti.
Purtroppo in ambito Olympus-Panasonic i fish sono sempre costati un patrimonio se si considera la particolarità della lente ed il fatto che non la si userà spesso ma solo per foto pensate e progettate.
Per fortuna in nostro aiuto è venuta la Samyang, azienda che si è fatta conoscere per la bontà dei propri vetri e i prezzi contenuti dovuti anche al fatto che le ottiche non hanno elettronica, funzionano con le ghiere manuali e non comunicano quindi con il corpo. Nel mio caso la lente ha garanzia ufficiale FOWA, acquistata quindi da rivenditore italiano a un prezzo più che onesto, nella confezione oltre alla lente corredata di paraluce tipico dei fish circolari ci sono i tappi anteriore e posteriore e una sacca morbida di buona fattura.
La mancanza di elettronica potrebbe essere un problema in molti casi ma non con un 7.5mm, qua basta impostare la messa a fuoco su infinito, il diaframma su 4.5 e si avrà tutto a fuoco senza problemi.
La lente è molto compatta e appare addirittura piccola sul corpo della EM1 ma è molto ben costruita, struttura in metallo, ghiere precise, insomma una bella lente.
Di seguito alcune foto della lente assieme al corpo:




Ora invece due scatti per comprendere il campo inquadrato, il primo a 12mm, il secondo con il Samyang 7.5mm:




Questa non è una lente per elementi architettonici ovviamente, ameno che non si ricerchino particolari effetti perchè distorce parecchio le linee orizzontali e verticali ma per i paesaggi è una favola a patto di saperla usare, nei prossimi giorni aggiungerò qualche panorama ripreso con questo fish.

AGGIORNAMENTO CON NUOVI SCATTI: